Noi non vogliamo più pagare!

sulla questione abitativa in Emilia Romagna

Bologna -

Il numero delle aziende in crisi è in rapido aumento, coinvolgendo il settore industriale e quello dei servizi. Il quadro già allarmante subirà un peggioramento nelle prossime settimane, a causa della fine di molte cassa-integrazioni e della fine degli ammortizzatori sociali. Molti lavoratori che hanno avuto fino ad oggi un reddito garantito, per quanto minimo, si troveranno senza alcuna copertura salariale. Dalla cassa-integrazione si passerà o alla mobilità, con una ulteriore diminuzione del salario o direttamente al licenziamento. Questo aumenterà inevitabilmente il settore precario fino ad arrivare a vere e proprie sacche di disoccupazione strutturale, fenomeno inedito in questa regione. La sorte del precariato nel pubblico e nel privato procede parallelamente. Le scelte contrattuali delle amministrazioni locali e regionali, con l’utilizzo del precariato non solo sta mettendo in crisi le garanzie economiche dei lavoratori, ma sta colpendo anche la qualità del servizio pubblico, penalizzando ancora una volta i servizi rivolti alle fasce popolari.

Per la prima volta, nel nostro territorio, sui mezzi di informazione, si assiste ad un interesse in merito al problema casa, visto lo strettissimo rapporto tra lavoro e abitare. L’affitto e la rata del mutuo sono le spese che più incidono sul reddito famigliare, l’aumento dell’insolvenza di entrambe è la prima spia della sofferenza economica dei lavoratori. Gli effetti di questa crisi hanno accelerato un processo di impoverimento che è cominciato ben prima dello scoppio della bolla speculativa legata all’economia finanziaria. La legislazione che ci troviamo davanti, a partire dalla legge 431 del 1998, che ha liberalizzato il mercato degli affitti, facendoli aumentare, fino a costringere migliaia di persone a contrarre mutui per l’acquisto dell’abitazione, fino alle scelte politiche che hanno fatto si che non si investisse più in edilizia residenziale pubblica e addirittura si permettesse una svendita del patrimonio, hanno notevolmente contribuito a creare l’attuale emergenza abitativa.
La politica, con un’ottica miope, si è illusa che il modello emiliano dal punto di vista economico e sociale potesse garantire uno sviluppo del benessere per la maggioranza della popolazione. Oggi l’attuale fase ha smentito questa previsione. Le amministrazioni locali, provinciali e regionali, non sembrano essere in grado di intervenire efficacemente in questo contesto. Gli strumenti messi a disposizione dalla Regione per affrontare il problema casa sono assolutamente inadeguati:

-il fondo per l’affitto che non si pensa di finanziare, al contrario si sta pensando di ridurre il numero di persone che potranno accedervi.

-il bando prime case per giovani coppie che conta solo 703 alloggi in tutta l’Emilia Romagna, che oltre ad essere in territori poco accessibili, prevede ovviamente un ulteriore indebitamento dei nuclei famigliari. Riproducendo un meccanismo i cui effetti sono già visibili.

-la proposta dell’Housing Sociale, vero specchietto per le allodole, che nasconde dietro al termine sociale il rifinanziamento di costrttori edili e speculatori immobiliari. E’ stato concepito come il sostituto dell’edilizia residenziale pubblica, consiste in una partner-ship fra privati, amministrazioni e terzo settore. I primi ci mettono l’investimento quindi pretendono un guadagno, i secondi ci mettono il bene pubblico ovvero terreni a basso costo, cambi d’uso e sgravi sulle tasse di costruzione, i terzi dovrebbero garantire la finalità etica e sociale del progetto. Il risultato è una percentuale di alloggi costruiti affittati a canoni calmierati, ovvero con affitti leggermente ribassati rispetto ai prezzi di mercato. Questi affitti sono fissi, non subiscono variazioni al variare dei redditi degli inquilini, rompendo la logica delle case popolari, dove l’affitto è calcolato in percentuale rispetto al reddito. Le logiche di profitto di un costruttore immobiliare prevedono che da un investimento si ricavi un guadagno che non deve essere inferiore al 30% del capitale investito altrimenti non viene considerato conveniente. Risulta chiaro quindi quale può essere la percentuale di alloggi in housing sul totale del costruito e quali possono essere gli affitti. Il vero risultato è una diminuzione del bene pubblico e una maggiore cementificazione del territorio.

 

La fascia di famiglie che è investita direttamente dall’emergenza non trova risposte in queste soluzioni e si innesca una guerra tra poveri per ottenere l’assegnazione di una casa popolare.
Si alimentano leggende legate all’immigrazione, rispetto al numero di immigrati in casa popolare, si propongono regolamenti più restrittivi legati agli anni di residenza, creando lacerazioni sociali che rischiano di sdoganare comportamenti razzisti di massa. Si sposta l’attenzione dal vero problema: la mancanza strutturale di investimenti in edilizia residenziale pubblica, che ha permesso a speculatori, cioè proprietari immobiliari e banche, di fare profitti tramite la rendita.
Alle altre migliaia di famiglie, che ancora non sono in emergenza abitativa, ma che sono in difficoltà rispetto alla diminuzione del reddito, vengono proposte ricette già viste che prevedono l’acquisto della casa attraverso l’indebitamento, meccanismo che sta portando già numerose famiglie a perdere l’alloggio per l’insolvenza delle rate.
Sul piano locale, come nel caso di Bologna, le amministrazioni propongono progetti e bandi altrettanto insufficienti, sia per il numero di persone coinvolte sia per le tipologie individuate ricordiamo per esempio il bando per l’auto recupero che prevede la costruzione di 50 alloggi in tre anni o il co-housing che riguarderà 50 posti letto in 4 anni, o il recente bando anticrisi che ha visto lo stanziamento di soli 230.000 euro. Le cifre solo sul territorio bolognese parlano di 35.000 famiglie residenti che hanno bisogno di sostegno abitativo.

Perché questo quadro muti è necessario invertire un percorso che in questi anni ha privilegiato le logiche del profitto e del mercato a scapito del bene pubblico e quindi dello stato sociale.
Voler risolvere il problema abitativo vuol dire quindi rimettere al centro l’edilizia residenziale pubblica. Quest’ultima oltre a essere una forma di garanzia sociale per la fasce popolari rappresenta un modello di abitare non fondato sulla proprietà individuale, ma sul bene collettivo. Rispetto al modello di città che ci viene oggi presentato ovvero una città basata su speculazione, cementificazione e mercato, fruibile solo da coloro che possono permettersela, lo sviluppo di una edilizia popolare partecipata è un modello opposto di convivenza, fondato su una idea dell’abitare comune e solidale. Un’idea che contrappone la riqualificazione alla cementificazione, spazi dedicati ai clienti a spazi dedicati ai cittadini.
Oggi c’è un progetto di espulsione e criminalizzazione delle fasce popolari, le sole chiamate a pagare gli effetti della crisi. Dal punto di vista urbanistico anche questo territorio rischia la creazione di ghetti in cui si concentra il disagio socio-economico. Bisogna impedire questa deriva, rovesciando la piramide, mettendo al centro le garanzie per le fasce popolari.
La crisi non è un momento in cui tutte le fasce sociali devono pagare gli effetti, al contrario rappresenta una possibilità di ridistribuzione della ricchezza e sperimentazione di nuovi modelli. I pochi che hanno fatto profitti in questi anni a scapito di molti, creando l’attuale situazione di crisi economica devono oggi pagare. Gli attuali assetti legislativi devono quindi subire una radicale inversione di tendenza.
I lavoratori, i precari, i disoccupati, sono i soli che possono pretendere questo cambiamento attraverso una rinnovata capacità di mobilitazione, organizzazione e generalizzazione delle lotte, perché siamo tutti consapevoli che non ci sarà regalato nulla.

Nel nostro territorio i movimenti e le organizzazioni di lotta per la casa devono affrontare l’emergenza abitativa. In primis gli sfratti per morosità, chiedendone il blocco e soluzioni temporanee per chi già ha perso la casa come la messa a disposizione di ostelli, che siano luoghi che garantiscano la dignità degli inquilini e che prevedano in tempi brevi il passaggio ad un alloggio vero e proprio, perché l’emergenza non diventi regola come è tradizione in Italia. Esistono edifici pubblici abbandonati che potrebbero essere adibiti a questo scopo.
Un’ulteriore possibilità per reperire alloggi è la requisizione di case private sfitte, presenti a migliaia in Emilia Romagna. Sindaci e Prefetti, per legge, sono le figure che possono fare una simile scelta. Queste due figure hanno ampie possibilità di intervento nella vita pubblica, fino ad oggi lo hanno dimostrato firmando i protocolli che limitano le libertà di manifestare, colpendo le libertà democratiche, vorremmo invece che questo impegno fosse rivolto contro gli speculatori, requisendo gli appartamenti.
Infine è necessario intervenire a favore di tutti coloro che ormai sono insolventi con le rate del mutuo. Già è presente una legge che prevede che le aziende regionali per il diritto alla casa possono acquistare gli alloggi di chi è insolvente per un mutuo prima casa mantenendo all’interno l’ex proprietario in affitto ad un canone sostenibile. Si tratta quindi unicamente di applicare uno strumento già a disposizione per legge.

L’AS.I.A-RdB, il sindacalismo di base e i movimenti per il diritto all’abitare e il bene pubblico in generale nei prossimi mesi saranno impegnati a sostenere queste rivendicazioni.

20 dicembre
Associazione Inquilini e Assegnatari (AS.I.A.-RdB) Emilia Romagna

 

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